Crisi nella coppia

womantryingsleep_450x450Le nostre ‘relazioni’ d’affetto erano generalmente durature: promettevamo di amarci reciprocamente per sempre. Oggi però queste relazioni non funzionano più: finiscono, non sembrano più quello che erano una volta, quello che pensavamo dovessero essere, ci spezzano il cuore e si frantumano. La metà dei nostri matrimoni si conclude con il divorzio, e chissà quanti altri amori di prova, di pratica e ‘part-time’ naufragano sugli scogli. Nessuno di noi può dire di essere passato indenne attraverso il tunnel dell’amore e all’inizio di questo nuovo millennio la nostra identità di amanti muore e allo stesso tempo diventa adulta. (D. R. Kingma, Il futuro dell’amore, Gruppo Futura, 2000, p. 9)

1. Vecchi modelli in crisi

Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad una serie di profonde trasformazioni nei rapporti di coppia. Il modello tradizionale incentrato sul matrimonio è sempre più entrato in crisi, sia per l’emergere di una maggiore libertà sessuale, sia per la crescente intolleranza degli individui verso i vincoli, gli obblighi, le formalità e anche se molti ancora optano per il matrimonio si trovano poi spesso a separarsi e a divorziare nel giro di pochi anni, se non mesi. Aumenta il numero delle coppie conviventi e dei single, ma anche per loro il rapporto di coppia è sempre più difficile da vivere: incomprensioni, litigi, crisi sono sempre più frequenti, mentre la durata media delle relazioni diminuisce vertiginosamente. Ma perché tutto ciò accade? Quali sono le cause di questo fenomeno che genera grande sofferenza individuale e sociale? Se le cose vanno male è veramente “tutta colpa sua” come molti ritengono?

La questione è complessa e varie sono ne sono le cause.

1) In primo luogo l’analfabetismo emotivo-relazionale dei partner – entrambi – che non sanno comprendersi e relazionarsi, ma anche la latitanza della società, che non fa niente per educare le persone alla buona comunicazione, alla consapevolezza dei sentimenti e delle emozioni, alla gestione costruttiva della relazione. In passato le relazioni di coppia erano vincolate da copioni socialmente prestabiliti e rigidi e non richiedevano particolari abilità comunicative, mentre oggi sono diventate sempre più libere e flessibili, e ciò le rende più intense e stimolanti ma anche più difficili da gestire perché richiedono conoscenze e abilità che nessuno – né in famiglia, né a scuola – ci ha mai stimolato a sviluppare. Per godersi i vantaggi di questa nuova libertà ed evitarne i numerosi e dolorosi effetti collaterali (litigi, incomprensioni, crisi, separazioni) sono dunque indispensabili appropriati “strumenti” di consapevolezza e di comunicazione, che non possiamo inventare da soli ma che possono essere sviluppate attraverso opportune letture e soprattutto la partecipazione ad appositi corsi tenuti da formatori qualificati.

2) In secondo luogo il fatto che nonostante tutto sia cambiato, intorno e dentro di noi, il matrimonio ha mantenuto saldamente la sua identità arcaica. Diversamente che in passato ci si può separare, divorziare, risposare anche, ma lo schema non è realmente cambiato, nel senso che l’ istituzione “matrimonio”– così com’è – non è adatta a soddisfare i nuovi bisogni e aspirazioni dei coniugi, che non sono più quelle del passato, quando ci si sposava per mettere su famiglia, per acquisire uno status sociale, per guadagnarsi una certa indipendenza dalla famiglia di origine, o più semplicemente perché a una certa età ci si deve sposare. La funzione sociale del matrimonio era principalmente quella della procreazione, della trasmissione ereditaria del nome e dei beni della famiglia, della alleanza tra famiglie, mentre oggi tali scopi sono sempre più secondari, prevalendo invece il reciproco benessere affettivo, sessuale e materiale dei coniugi, e non solo, poiché la relazione di coppia mette in gioco molte altre dimensioni – intellettuali, esistenziali, e anche strettamente pratiche – che portano inevitabilmente ad un incontro e ad un confronto di personalità e di mentalità.

In passato i coniugi, pur abitando sotto lo stesso tetto, vivevano in due mondi separati: i loro compiti erano nettamente distinti e le reciproche aspettative assai diverse da quelle attuali, poiché il partner era visto più come un ruolo (marito-moglie, padre-madre dei propri figli) che non come una persona. Salvo rari casi non si avvertiva alcun bisogno di conoscersi a fondo, di costruire una intimità, un dialogo; l’importante era che ognuno si comportasse bene, che svolgesse i ruoli che gli competevano. La motivazione stessa del matrimonio – mettere su famiglia – poneva in secondo piano il partner in quanto individuo, anzi entrambi erano chiamati a rinunciare alla loro individualità (ammesso che ne avessero mai potuta sviluppare una) a favore della famiglia. Non esisteva alcun confronto sui vissuti emotivi perché solo la donna ne era consapevole (e se li teneva per sé o al massimo ne parlava con le amiche più intime): l’uomo aveva fin da bambino rinnegato e rimosso la propria emotività e vulnerabilità e non era in grado di interagire su tale piano (né avrebbe voluto). Non esistevano confronti neppure su piani più intellettuali, poiché alla donna non era dato di parlare di certi argomenti e di avere una istruzione che non fosse cucito e buone maniere (e spesso neppure questo). Oggi invece il confronto è un elemento essenziale al buon andamento non solo delle relazioni matrimoniali ma anche di relazioni di coppia meno formalizzate, e non è un confronto facile, perché l’uomo e la donna hanno due modi di vedere le cose e di comunicare molto diverso, e nessuno ci ha mai spiegato questa diversità, che può essere fonte di grande arricchimento se la si sa affrontare ma anche di grande sofferenza se invece la ignoriamo. A questa difficoltà di base va poi aggiunto il processo di emancipazione della donna, che non si accontenta più di ricevere dal proprio partner una casa e una certa sicurezza materiale ma avanza anche altre richieste, sessuali, sentimentali e di dialogo, che non sempre lui è in grado di capire e di soddisfare, anche perché mentre la donna ha iniziato già da tempo a sviluppare il proprio maschile interiore, l’uomo – salvo rare eccezioni – non ha ancora affrontato il suo femminile interiore ed anzi lo teme.

2. Verso una nuova coppia?

E’ indubbio che il modello tradizionale non risponda più alle nuove esigenze, ma è altrettanto vero che le relazioni di coppia non possono limitarsi al solo erotismo. Vi è un bisogno profondo di intimità, di confronto, di unione che non può essere soddisfatto da rapporti occasionali e richiede una qualche forma di continuità, meno rigida però di quella tradizionale. La cultura emergente non fornisce in proposito ricette certe, ma indica alcune direzioni di ricerca. Per prima cosa non esistono soluzioni valide per tutti, e ogni individuo e ogni coppia dovrebbe trovare una propria via di realizzazione: per alcuni può risultare ancora appropriata la via tradizionale del matrimonio, magari con qualche personalizzazione, mentre per altri la direzione può essere quella della convivenza o di forme ancor meno rigide da un punto di vista dei vincoli. Ciò che conta, nella nuova ottica, è soprattutto la consapevolezza e l’impegno con cui i due partner vivono la strada scelta, quale che sia. In secondo luogo, le proposte non vanno calate dall’alto ma scoperte singolarmente dall’individuo e dalla coppia attraverso un processo di libera e cosciente sperimentazione. Si può naturalmente prendere spunto da esperienze altrui, trarre aiuto e stimolo dalla condivisione, dal confronto con altri individui e con altre esperienze, per poi però giungere a creare la propria personale sintesi.

Grazie alla libera sperimentazione condotta a partire dagli anni ’60, ci si è resi conto che la promiscuità non è alla lunga soddisfacente, ma anche che “stabile” non significa necessariamente “a vita”. I nuovi principi sul come vivere le relazioni di coppia andranno ispirati ad una grande flessibilità, che tenga conto del fatto che gli individui sono diversi tra loro e che le fasi della vita, pure, possono rispecchiare bisogni diversi. Pertanto ciò che va bene per uno può non andare bene per l’altro, così come ciò che va bene in una certa fase può poi richiedere un cambiamento in funzione della continua evoluzione.

3. Incontro, scontro e crescita nelle relazioni

Come si è visto, la relazione di coppia oggi non si limita più alla famiglia e alla procreazione, e non si esaurisce neppure nella sessualità e nei sentimenti, ma mette in gioco molte altre dimensioni che portano inevitabilmente ad un confronto di personalità e di mentalità che può evolversi sia come crescita sia come scontro, più spesso entrambi. Nelle fasi iniziali di una relazione le persone tendono a fare bella figura, a mostrare la parte “migliore” e più accettabile di sé. Se poi tra loro nasce un innamoramento ognuno tende a vedere l’altro ancor più bello e apprezzabile, idealizzandolo. Tuttavia, presto o tardi anche altri aspetti della personalità emergeranno e alla fase iniziale dell’innamoramento, in cui il partner appare splendente come il sole, subentrano fasi meno brillanti in cui si prende coscienza anche dei suoi limiti e dei suoi lati meno lucenti: l’ombra. E’ qui che nascono le prime incomprensioni, le prime delusioni, i primi conflitti che poi, se manca una reciproca capacità di comunicare (e quasi sempre manca) inevitabilmente vanno ad accentuarsi fino a portare alla crisi.

I modi di affrontare questi problemi variano da persona a persona: alcuni tendono a nascondere il disaccordo, inscenando una rappresentazione di armonia tutt’altro che veritiera, oppure si rassegnano a convivere con le tendenze distruttive, alternando fasi di litigiosità a fasi di relativa quiete. Altri, giunti oltre un certo livello, decidono di cessare la relazione per cercare un’altra persona che gli faccia riprovare l’ebbrezza dell’innamoramento e che sia finalmente quella giusta. Se in passato prevaleva la prima tendenza (rassegnazione e conflitto sotterraneo), oggi sta sempre più affermandosi la seconda (separazione e ricerca di un nuovo partner). Tuttavia, per quanto intensa possa essere la fase di innamoramento, per quanto giusto possa apparirci il nuovo partner, prima o poi si manifesteranno anche i suoi limiti e aspetti ombra, rinascerà il conflitto e saremo di nuovo punto e a capo. Il fatto è che tutti i suddetti modi di affrontare la questione sono errati: non va bene ignorare o sopportare il problema, perché vuol dire rinunciare a quanto di più bello una relazione di coppia può offrire, e non va bene neppure passare da una storia all’altra all’eterna ricerca del partner ideale, poiché non esistono persone fatte di sola luce e ognuno ha in sé anche delle zone oscure, inconsce, che premono per emergere e essere finalmente riconosciute. La relazione sentimentale non ha solo lo scopo di far stare bene i due partner, ma è anche e soprattutto il luogo in cui ognuno dei due desidera colmare il proprio senso di incompletezza e guarire una volta per tutte le proprie ferite d’amore primarie, vale a dire le carenze affettive e le delusioni subite durante l’infanzia, inclusi gli eventuali abusi fisici o morali. E’ un desiderio per lo più inconscio ma molto, molto potente, che influenza profondamente la dinamica della relazione e che ho illustrato più estesamente altrove.

Da bambini le nostra speranza più grande è che i nostri genitori ci accettino così come siamo e si impegnino a comprenderci realmente, a rispettarci ed amarci come e quanto abbiamo bisogno. Purtroppo è una speranza che si avvera solo in parte, talvolta addirittura per niente, creandosi così delle vere e proprie ferite affettive, più o meno profonde a seconda dei casi. Col tempo subentra una sorta di abitudine, di rassegnazione e infine di oblio. Ma la speranza non è morta, è solo in animazione sospesa, e si risveglia quando ci troviamo coinvolti in una relazione di coppia. Non sempre e non subito, però: solo in quelle relazioni in cui c’è un profondo coinvolgimento affettivo, un innamoramento, e solo quando i due hanno raggiunto un certo grado di confidenza e intimità e iniziano a fare a meno delle maschere. A questo punto scattano in entrambi forti aspettative nei confronti dell’altro:

“Che cosa farai per me? Mi aiuterai? Mi ascolterai? Mi farai sentire bene? Realizzerai i miei sogni? Sarai il padre che io non ho potuto avere, la madre che non ho avuto? Adesso che mi sono innamorato di te, tu hai il dovere di far scomparire le mie sofferenze. Ascoltami, guariscimi, fammi stare bene. (…) Ci sono due tipi di bisogni emotivi che cerchiamo di soddisfare nelle nostre relazioni intime: uno è quello di cui siamo consapevoli (fammi felice, dammi la sicurezza economica, sii un buon padre per i miei figli), l’altro è costituito dalle esigenze emotive inconsce che rappresentano il tentativo della nostra personalità di guarire tutto ciò che si frappone alla nostra capacità di sentirci integri. In ogni relazione esiste dunque un viaggio emotivo nascosto.” (D. R. Kingma, op. cit., p. 41)

La relazione di coppia diviene insomma una opportunità tramite cui crediamo di poter guarire una volta per tutte le ferite d’amore, le carenze affettive, le delusioni subite durante l’infanzia e il partner diviene per certi aspetti un sostituto di nostro padre, di nostra madre (o di entrambi) e inconsciamente lo invitiamo – talvolta sfidiamo – ad amarci in modo totale, ad accettarci per quello che siamo, ad essere il genitore perfetto che non abbiamo mai avuto ma abbiamo sempre desiderato.

Si tratta, come è facile intuire, di aspettative eccessive, che solo una mente bambina può sperare di poter soddisfare e tuttavia il nostro inconscio è sempre allo stadio infantile – è inconscio proprio perché non ha voluto /potuto crescere – e quindi è proprio sulla base di tali aspettative che passiamo dall’innamoramento alla relazione stabile. “Quando ci innamoriamo non ci limitiamo a dire: ‘Hai proprio una mente meravigliosa, sarà una gioia parlare con te per i prossimi cinquant’anni’. Quello che diciamo in realtà è: ‘Hai proprio una mente meravigliosa; mi aspetto anche che tu sia un amante eccezionale, una compagnia straordinaria per le uscite del venerdì sera, un padre stupendo, il mio sostegno e la mia spalla in società, il mio compagno politico, la persona di cui i miei genitori si possono fidare, il conforto nei momenti di sofferenza, e anche il mio guru, il mio lacrimatoio e la mia banca personale’” (ibidem).

Poiché ci aspettiamo che una singola relazione soddisfi pienamente e perfettamente tutte le nostre esigenze in questa maniera stravagante e irreale, naturalmente tendiamo ad escludere tutte le altre persone che potrebbero partecipare alla soddisfazione delle nostre esigenze; questo allevia tali persone da potenziali fardelli e in un certo senso fa sembrare la vita meno complicata, ma sovraccarica il partner – che è soltanto un semplice mortale che ci ama, non un dio che può realizzare ogni nostro sogno e, nell’aggrapparci a questo mito diventiamo troppo esigenti.

Se ci limitassimo ad invitare il partner ad amarci, senza sfidarlo, senza aggredirlo, senza nasconderci, il rapporto sarebbe meno teso, meno ambiguo; se sapessimo comunicare con chiarezza e chiedere apertamente al partner ciò di cui abbiamo bisogno, lo metteremmo nelle condizioni per fare del suo meglio e capiremmo che anche lui si trova nella nostra stessa situazione. Potremmo a questo punto reagire in due modi:

1) Lasciarlo, perché ci ha rivelato la sua fragilità e i suoi limiti mentre noi cerchiamo un partner super che non sia ferito e bisognoso ma generoso, impeccabile e tutto per noi (questa aspettativa è molto simile a quella del bambino verso il genitore: da piccoli tutti noi vediamo i genitori come esseri enormi, onnipotenti, vere e proprie divinità). Si tratta di una reazione sbagliata, ma sempre meglio che continuare a perdere tempo in sfide, conflitti, scontri.

2) Affrontare in modo più realistico il rapporto, comprendendo che il nostro partner non ha il potere magico di guarire le nostre ferite di cuore e di riempire i nostri vuoti esistenziali – né lui né nessun altro partner. Guarire tali ferite e colmare tali vuoti è un processo possibile – anche se lungo e laborioso – ma può avvenire solo attraverso l’autoguarigione; certo, un partner comprensivo e amorevole può esserci di grande aiuto, ma il lavoro ognuno lo deve fare da sé su di sé.

Il punto di partenza per un tale lavoro è assumersi la responsabilità della propria guarigione, senza scaricarla su altre persone: né sui nostri veri genitori né sul nostro partner. Dobbiamo accettare che quel che è stato è stato: nostri genitori non cambieranno, così come le situazioni e le cause che hanno prodotto le nostre ferite affettive non possono essere cambiate: appartengono al passato e i fatti del passato non possono mutare. Può però mutare la nostra interpretazione di quei fatti e possono mutare le conseguenze di quei fatti. Posso per prima cosa interpretare la mancanza di amore non come una mia sfortuna e ingiustizia privata ma come un male collettivo che affligge tutta l’umanità; in tal modo smetterò di sentirmi vittima e di attribuire colpe agli altri – se colpe vi sono, sono collettive – e potrò poi perdonare coloro che – genitori, partner precedenti – involontariamente mi hanno fatto soffrire perché a loro volta sofferenti.

Posso a questo punto lavorare sul mio malessere attuale prescindendo dalle cause passate: se un’altra persona ferisce il mio corpo con un coltello, posso curarmi la ferita senza il bisogno coinvolgere colui che mi ha ferito; per guarire non è necessario né che recuperi il coltello, né che mi sforzi di indurre l’altra persona a cambiare e a non farlo più. Analogamente, potremmo curare le ferite affettive senza tirare in ballo i nostri genitori, ma imparando a fare da padre e madre amorevoli di noi stessi – qualcosa di molto simile a ciò che molti maestri spirituali hanno chiamato “amare se stessi”.

Oltre a curare le ferite dobbiamo anche imparare a comunicare meglio con noi stessi e con l’altro, a comprendere e accettare le nostre e le altrui zone d’ombra, e a riconoscere e gestire le nostre e altrui emozioni, poiché solo così potremo davvero aiutarci e sostenerci in questo difficile ma entusiasmante percorso che è la relazione.

“La natura umana era in origine unica e noi eravamo interi, e il desiderio e la caccia dell’intero si chiama amore” (Platone, Simposio).

Enrico Cheli

Fonte: http://www.unisi.it