Delle «Sette regole dell’arte di ascoltare» quella che più immediatamente rende l’idea di cosa si intende per Ascolto Attivo è la terza, la seguente: “Se vuoi comprendere quello che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva“.
L‘Ascolto Attivo implica il passaggio da un atteggiamento del tipo «giusto-sbagliato», «io ho ragione-tu hai torto» (o viceversa), «amico-nemico», «vero-falso», «normale anormale », ad un altro in cui si assume che l’interlocutore è intelligente e che dunque bisogna mettersi nelle condizioni di capire com’è che comportamenti e azioni che ci sembrano irragionevoli e/o che ci disturbano o irritano, per lui sono totalmente ragionevoli e razionali.
Nel mondo occidentale il riconoscimento dell’importanza dell’ascolto attivo in generale (e non solo in sede terapeutica) è una conquista molto recente. Un grosso impulso alle ricerche sulle dinamiche dell’ ascolto attivo è stato dato, agli inizi degli anni ’80, dagli studi sulle aziende post-industriali e sulle dinamiche della gestione creativa dei conflitti sia nelle dispute aziendali che nella vita quotidiana che nelle relazioni internazionali.
Le basi teoriche per questo approccio erano state elaborate in precedenza da studiosi che hanno sostenuto la priorità dell’ascolto in un paradigma dialogico (Martin Heidegger, Michail Bachtin, Martin Buber) e dai teorici dei sistemi complessi capaci di autoregolazione (Heinz von Foerster, Fred Emery e Eric Trist, Ashby, Varela e Maturana, Gregory Bateson).
La comunicazione interculturale
Il modello più efficace per comprendere la differenza fra Ascolto Passivo e Ascolto Attivo è offerto dalla buona comunicazione interculturale in situazioni concrete e contingenti, in quanto rende più facilmente evidenziabile che «uno stesso comportamento» può avere significati antitetici e al tempo stesso assolutamente legittimi. Per esempio il «non guardare negli occhi una persona anziana e autorevole» in un contesto culturale può essere segno di rispetto, in un altro segno di mancanza di rispetto.
I malintesi, l’irritazione, l’imbarazzo, la diffidenza in questi casi non sono risolvibili in termini di comportamenti «giusti o sbagliati», ma cercando di capire l’esperienza dell’altro, le premesse implicite diverse dalle nostre sulla base delle quali interpreta la situazione, il che implica accogliere come importanti aspetti che siamo abituati a considerare trascurabili o addirittura che prima non abbiamo mai preso in considerazione. L’atteggiamento giusto da assumere quando si pratica l’Ascolto Attivo è diametralmente opposto a ciò che caratterizza quello che tradizionalmente viene considerato un buon osservatore: impassibile, «neutrale», sicuro di sé, teso a nascondere e ignorare le proprie reazioni emozionali.
Al contrario, se vogliamo entrare nella giusta ottica, dobbiamo imparare qualcosa di nuovo e sorprendente, che ci «spiazza» dalle nostre certezze e dunque che ci consente di dialogare. Questo significa che dobbiamo essere disponibili a sentirci «goffi», a riconoscere che facciamo fatica a comprendere ciò che l’altro ci sta dicendo: in questo modo stabiliamo rapporti di riconoscimento, rispetto e apprendimento reciproco che sono la condizione per affrontare congiuntamente e creativamente il problema. È la rinuncia all’ arroganza dell’uomo-che-sa e l’accettazione della vulnerabilità, ma anche l’allegria della persona-che-impara, che cresce, che cambia con gli altri invece che contro gli altri.
Un “metodo” relazionale complesso
L’Ascolto Attivo non è un comportamento o una serie di comportamenti, è un processo relazionale complesso che richiede, per poter dirsi compiuto, il ricorso all’autoconsapevolezza emozionale e alla gestione creativa dei conflitti. Per esempio, una signora anziana di un Paese occidentale probabilmente si sentirà irritata e insospettita se la giovane coreana che l’accudisce non la guarda negli occhi e quest’ultima a sua volta si sentirà oggetto di una diffidenza penosa quanto incomprensibile.
Perché la convivenza proceda bene, nell’accoglienza reciproca, entrambe devono imparare a interpretare le proprie emozioni come informazioni sulle diverse cornici che danno per scontate e non sul significato dei reciproci comportamenti. Invece che portare ad un atteggiamento difensivo-aggressivo, l’irritazione deve essere considerata un punto di partenza per spiegarsi meglio e per porsi come «esploratrici di mondi possibili» e inventrici di nuovi e più complessi modi di convivenza. Questo richiede tolleranza, flessibilità e senso dell’umorismo.
Il giudice saggio
La dinamica complessiva di questo tipo di comunicazione è ben rappresentata dall’aneddoto del «giudice saggio», che è il seguente. Al giudice saggio furono portati i due litiganti. Egli ascoltò molto attentamente le ragioni del primo e commentò: “Tu hai ragione”. Poi ascoltò il secondo e di nuovo commentò: “Tu hai ragione”. A questo punto un osservatore esclamò: “Eccellenza, non possono avere ragione entrambi!”.
Il giudice saggio ci pensò sopra un attimo e poi, serafico: “Hai ragione anche tu”. Nella comunicazione interculturale molto spesso hanno ragione entrambi gli interlocutori, e al tempo stesso «non possono aver ragione entrambi» perché non si capiscono fra loro. Il riconoscerlo è un indice di saggezza.
Un’altra abitudine di pensiero
Il dialogo fra culture diverse non riguarda in primo luogo i comportamenti, ma abitudini percettive-valutative profondamente interiorizzate e difficili da cambiare. Sempre più spesso con il diversificarsi della nostra società, l’ascolto attivo diventa una competenza di base, indispensabile anche nella vita quotidiana all’interno di una «stessa cultura».
Questa competenza oggi è spesso richiesta anche nei rapporti fra genitori e figli, fra marito e moglie, fra insegnanti e allievi, fra pubblici amministratori e cittadini, fra urbanisti e abitanti. Quando ci muoviamo entro un «sistema semplice» (cornici condivise, stesse premesse date per scontate) l’abitudine di pensiero più adeguata è quella della logica classica, della razionalità.
Ma quando il sistema di cui siamo parte è «complesso», bisogna passare ad un’altra abitudine di pensiero guidata dall’ascolto attivo, interessata alle cornici e premesse implicite, che considera l’osservatore parte integrante del fenomeno osservato, circolarmente e auto-riflessivamente.
Marianella Sclavi
Fonte: http://www.oew.org