Single per scelta

single-woman-05Secondo il vocabolario della lingua italiana il termine single, che propriamente significa “singolo, solo”, indica, nel linguaggio giornalistico e sociologico, un uomo o una donna non sposati, o che comunque vivono da soli, per lo più per libera scelta.

In Europa il termine single indica lo stato libero, ha valore, quindi, di connotazione sociale: definire una persone single come “libera” porta quasi a considerare, concettualmente, come “legata, incatenata” la persona coniugata; negli Stati Uniti, invece, è semplicemente un dato di fatto.

Secondo l’Istat nel 1998 viveva da solo il 29,6% degli abitanti delle grandi città (Milano era la città con la percentuale più alta); negli Stati Uniti i singles sono addirittura 64 milioni. Si tratta di persone di una cultura e di un’estrazione sociale medio-alta e contraddistinti da una notevole mobilità lavorativa; la maggior parte di essi è soddisfatta della propria condizione e delle proprie scelte ed usufruisce di una folta e complessa rete sociale, spesso decisamente più ampia di quella che gravita attorno ad una coppia di coniugi.

Quello dei singles è ormai un autentico “fenomeno” sociale; basti pensare che sono addirittura nate delle associazioni quali la San Faustino Single Pride Association o l’Associazione Nazionale Italiana Singles che s’impegnano perché i singles possano adottare dei bambini, perché vengano assegnate anche a loro le case popolari, perché possano usufruire di sconti su alcune tasse o sui viaggi esattamente come le coppie.

Fra le motivazioni che sembrano essere alla base della “scelta” di rimanere da soli sono particolarmente frequenti il desiderio di poter usufruire al massimo della propria libertà e, quindi, la paura di perderla; la paura di impegnarsi e di assumersi delle responsabilità; le delusioni affettive precedentemente incontrate e il famoso “meglio soli che male accompagnati”.

Si potrebbero rintracciare, sulla base di queste diverse motivazioni, diverse tipologie di singles, con particolari caratteristiche di personalità e con una serie di esperienze di vita probabilmente vissute.

Ad una prima tipologia potrebbero appartenere tutti quegli uomini e quelle donne che hanno difficoltà ad instaurare un legame duraturo o, come spesso si dice, “serio” perché vivono con timore, se non con vero terrore, la possibilità di perdere la propria indipendenza, che sentono quindi un legame importante come una potenziale gabbia.

Sembra esservi in loro una certa difficoltà ad assumersi la responsabilità del rapporto, forse perché si tratta di persone un po’ viziate, che hanno difficoltà a dare e soprattutto a “darsi”.

Può trattarsi di persone tendenzialmente narcisiste, laddove per narcisismo non si intende certo quella coscienza di sé, quell’autostima, quel desiderio di essere riconosciuti come unici e importanti, che fanno parte della natura umana e che sono indispensabili per la costruzione di relazioni umane positive, soddisfacenti e mature.

Per narcisismo va inteso, in questo caso, un modo di essere tale che le relazioni instaurate sono essenzialmente immature, come se l’investimento della propria persona fosse così forte da rendere difficile l’investimento di una persona diversa da sé di altrettanta importanza.

Ora, se ciò mette certamente al riparo da atteggiamenti di abnegazione e di annullamento di sé che a volte sembrano caratterizzare un membro o i membri di una coppia, è anche vero che impedisce di vivere dei rapporti pieni e complessi.

Il timore che una relazione profonda possa togliere più che dare è in queste persone molto forte.

Ciò che sembra dominare è l’insofferenza nei confronti di quei compromessi che diventano necessari laddove, oltre al trasporto emotivo verso il partner, c’è anche la volontà, l’impegno ad alimentare, giorno dopo giorno, il proprio rapporto.

Come tutti sappiamo, dopo la prima, entusiasmante e travolgente, fase dell’innamoramento, bisogna fare i conti con la presa di coscienza non solo dei difetti del partner, ma soprattutto con l’idea che l’idillio tipico dell’innamoramento non dura per sempre e che è necessario un passaggio di qualità, quello verso l’amore.

Per persone innamorate più che altro dell’innamoramento e dell’idea dell’amore, questo passaggio può essere tutt’altro che naturale e facile.

Non bisogna però dimenticare come, per la realizzazione di un’affettività soddisfacente e matura, siano importanti anche i modelli familiari ricevuti. Se il modello familiare ricevuto è negativo, anche se a parole viene detto spesso: “Non ripeterò mai gli stessi errori commessi dai miei, mi creerò una famiglia più solida e felice”, è difficile non esserne influenzati.

Un esempio può essere quello di una famiglia fortemente matriarcale in cui la figura paterna è sullo sfondo: in una figlia, se da un lato, si crea una buona coscienza di sé come donna, dall’altro possono gettarsi le basi per una scarsa stima e considerazione dell’universo maschile; in un figlio, invece, potrebbero crearsi tutta una serie di profonde insicurezze (bassa autostima e debole consapevolezza di sé in quanto uomo) che si riflettono nei rapporti con l’altro sesso.

Un altro esempio può essere quello di una famiglia separata in cui non vi sia stata una matura gestione della situazione da parte dei genitori; i figli, usati spesso come terreno di ripicche, possono risentirne fortemente nello sviluppo della propria affettività e nella costruzione della propria idea di legame e famiglia.

Una seconda tipologia di single può essere rintracciata in tutte quelle persone che dicono di essere sole e di preferire la vita da single perché hanno sofferto molto per le relazioni precedenti e, come spesso affermano, sono deluse dall’amore.

Si tratta di persone che, poiché hanno amato e hanno sofferto, hanno paura della sofferenza e, di conseguenza, si impediscono di amare.

Alla base può esservi una personalità tendenzialmente dipendente, con una forte tendenza all’annullamento, all’abnegazione, al riconoscimento di sé solo sulla base del rapporto con l’altro, come a dire: “Io ho valore perché il mio partner mi attribuisce valore, o ancora, perché il mio partner ha valore”.

La perdita dell’oggetto d’amore va oltre il normale senso di lutto che caratterizza la fine di una relazione affettiva; la sensazione che si ha è quella che ad andare perduto non è solo la persona amata, ma anche se stesso, “se lui/lei non mi ama più non ho alcun valore, non esisto”.

A volte, invece, si tratta di persone piuttosto rigide, che, avendo sofferto molto in passato, si sono costruite una sorta di corazza che le difende dalla sofferenza.

Purtroppo, però, difendersi da tutto ciò che è potenzialmente fonte di dolore significa difendersi anche da tutte le possibili fonti di soddisfazione e gioia profonda.

Il mondo emotivo viene accantonato, ciò che domina è la razionalizzazione, ossia il dare una veste razionale a ciò che altrimenti sarebbe causa di frustrazione e sofferenza.

Tipico è l’esempio di un ragazzo che, rifiutato dalla ragazza che desidera, pensa e dice che in fondo non è poi così interessante; o, ancora, la donna che si convince che non era poi così tanto innamorata di quell’uomo, che sapeva dall’inizio che si trattava di una storia destinata a non durare a lungo.

In questo modo non solo viene resa la realtà più accettabile, ma si tutela la propria autostima e il proprio narcisismo. Talvolta, poi, tutta la propria energia emotiva viene spostata in altri settori, quello lavorativo ad esempio; il rischio è che si crei un meccanismo perverso per cui la propria affettività viene accantonata per buttarsi anima e corpo su un altro campo, con la probabile conseguenza di non riuscire più a trovare né il tempo, né la motivazione a creare delle relazioni soddisfacenti e profonde.

Si può poi rimanere schiavi di un’immagine di forza, distacco e razionalità, che poco spazio lascia all’emotività e, soprattutto al suo riconoscimento da parte propria e degli altri. Tipico è l’esempio di quelle donne in carriera che per anni hanno sacrificato la propria vita privata e che si ritrovano a quarant’anni a desiderare, com’è naturale del resto, di costruirsi una famiglia, di avere dei figli. In questo caso, comunque, entrano in gioco delle dimensioni che non sono più solo psicologiche, ma anche culturali e sociali.

Essere single, infatti, non significa necessariamente avere un approccio problematico nei confronti dell’altro sesso.

Se lo consideriamo in una dimensione sociale, diventa sinonimo di indipendenza, di capacità di gestire in libertà la propria affettività, la propria scelta di legarsi ad una persona o, al contrario, di rimanere soli per un po’, cogliendo stimoli e soddisfazioni da altre sfere della propria vita.

Ecco che essere single diventa una vera scelta non condizionata da gabbie psicologiche, tanto meno da stereotipi culturali; la scelta di non accontentarsi, la maturità sia di saper apprezzare la solitudine che di “sapersi dedicare” alla persona giusta, al momento giusto.

Questa possibilità di scegliere come gestire la propria vita sentimentale è certamente legata, soprattutto per quel che riguarda le donne, alla possibilità di poter gestire la propria vita sociale e professionale.

In passato, quando il ruolo e il “potere” della donna erano essenzialmente legati all’unione con un uomo e alla costruzione di una famiglia, quando bastava che si arrivasse senza marito ad una certa età per essere definite socialmente come “zitelle senza speranza”, le scelte delle donne erano notevolmente influenzate da aspettative sociali e culturali.

La stessa istituzione familiare è estremamente cambiata. Ora, se da un lato si è giunti simbolicamente e praticamente al venir meno del modello classico di famiglia e delle certezze che garantiva, dall’altro ciò va visto come una possibilità di trasformazione importante.

Oggi è possibile sperimentare legami diversi e diversi modi di vivere e, in tal senso, si può far riferimento alla possibilità attuale di poter interrompere un rapporto, di potersi separare e/o divorziare.

Se in passato la sola idea di interrompere un matrimonio era considerata assolutamente inconcepibile e si preferiva portare avanti un rapporto affidandosi al proprio “spirito di sacrificio”, ora, grazie ad una serie di cambiamenti istituzionali e sociali, non è più così difficile pensare che forse si è fatto uno sbaglio o ammettere che non ci sono più i presupposti perché il matrimonio duri ancora.

Anche una separazione può essere vista non più soltanto come un evento catastrofico, ma come un cambiamento, che, come tutti i cambiamenti, comporta una sofferenza e impone una messa in gioco della propria persona e del proprio modo di relazionarsi, ma consente anche una possibilità di crescita.

Forse tutta questa “libertà” di cui sembrano godere i singles può essere considerata come un modo più semplice di affrontare le sfide di ogni giorno (in fondo anche il rapporto con il partner può essere vista come una continua sfida contro la noia e la routine), forse si può tradurre in una non volontà di prendersi responsabilità importanti.

Ma, se usciamo dalla logica del dover fare ed entriamo in quella del voler e sentire di voler fare, ecco che la possibilità che oggi si ha di poter interrompere un legame, come anche di non averne, getta le basi per una gestione dell’affettività più libera, “sentita” e voluta.

Se si fa ciò che veramente si vuole e si sente di voler fare, se davvero si sceglie, non c’è spazio per frustrazioni o per rimpianti.

di Valeria Cappiello

Fonte: http://www.iissweb.it