Il rapporto di coppia

Il rapporto di coppiaE’ difficile, nel rapporto di coppia, contrastare la spinta alla funzionalità che in modo sempre più esclusivo regola le relazioni interpersonali. Condizionati come siamo, nel lavoro, a pensare e contrattare continuamente nell’ottica del dare e dell’avere, troviamo poi difficile sviluppare, fuori dal lavoro, la capacità dell‘esperienza interiore, del trasporto, del saper gustare fino in fondo le cose, indispensabile all’esistenza e alla crescita di un rapporto d’amore.

La nostra mentalità economica si basa sul seguente presupposto: “se una cosa è tutta mia, non può essere contemporaneamente tua”. E’ una mentalità che permea la gran parte dei nostri contatti, contraddistinti dal carattere commerciale del baratto, per cui chi dà qualcosa riceve qualcos’altro in cambio. Nell’amore maturo, tuttavia, identiche sono le entrate e le uscite, il ricevere e il dare.

Riceviamo in entrata esattamente ciò che abbiamo regalato, ciò che diamo. Se regaliamo gioia, riceveremo proprio questa gioia; diventiamo lieti se allietiamo gli altri. Colui che dà sente nel dare la propria vitalità e percepisce nel Tu, al quale si dà, possibilità sconosciute della propria anima. Difficilmente chi è abituato alla mentalità economica riesce a percepire la paradossale concordanza tra dare e ricevere.

Questo dato aiuta a capire perché, nella società odierna, molti si autodistruggono. Vi sono persone che si sentono vive, nella migliore delle ipotesi, all’inizio di un rapporto d’amore. Per un po’ di tempo riescono a proteggere l’esperienza particolare dell’amore dalla mentalità del baratto che caratterizza le loro relazioni. A lungo andare, tuttavia, non ce la fanno a sottrarre neppure questo rapporto al terrore della mentalità mercantile.

Forse, sin dall’inizio della relazione avevano cominciato a scusarsi con i colleghi per il posto importante che essa veniva a occupare nella loro vita, come ci si scuserebbe per una bambinata. Discolpandosi , avevano già iniziato a svalutare l’eros: l’amore è una debolezza perdonabile che, di fronte alla dura realtà della vita, di tanto in tanto ci si può anche permettere. L’amore non ha dunque nessuna realtà. È pura finzione. In base a questa mentalità, per queste persone l’amore perde a poco a poco il significato; diventa una delle tante abitudini.

Mentre il sentimento si raffredda, regolano la convivenza con il partner seguendo un consolidato modello economico: ciascuno fornisce all’altro una prestazione possibilmente equivalente. Gli uomini che occupano posizioni dirigenziali sono particolarmente soggetti a questo processo di autodistruzione. Tuttavia, dato che nella nostra società rappresentano un modello ideale, nessuno è protetto dalla pericolosa attrazione che suscitano. Si sta accentuando anche in molte donne la tendenza alla svalutazione dell’eros, nella misura in cui queste donne si  assoggettano agli schemi dell’efficientismo maschile.

Gli uomini competitivi usano male la loro capacità di amare. La possibilità di percepire i sentimenti come realtà interiore e di strutturare il mondo dei loro stessi sentimenti nella dedizione e nella resa non si sviluppa. Le loro emozioni non attraggono un Tu, ma un oggetto inadeguato. Come Narciso che, in contrasto con le leggi naturali, volge le proprie emozioni al proprio Io anziché a un Tu, allo stesso modo l’uomo “di successo” rivolge alla propria professione o allo sport preferito anche quell’energia che dovrebbe essere riservata all’amore, alla dedizione a un Tu.

Se dunque, l’energia destinata all’amore non trova collegamento con un Tu, si creano nell’Io un’eccessiva pressione e un ristagno. Allora, o si ricorre a un sistema di valvole che consentano di scaricare il vapore (per esempio in fantasie ed esperienze sessuali avulse da un reale interesse per un Tu), oppure la pressione rende l’Io sempre più duro, inflazionato e aggressivo in tutte le sue funzioni.  Il circuito psicofisico, costantemente sovraccarico, finisce per logorarsi. Così, l’uomo competitivo si butta a capofitto nel lavoro, utilizzando una forza d’urto che troverebbe il suo senso naturale solo nell’amore.

Forse incorre nello stesso incidente che ha luogo quando un rasoio elettrico viene collegato a un voltaggio troppo alto: all’iniziale maggiore efficienza rispetto a un apparecchio dello stesso tipo collegato al corretto voltaggio, rapidamente succedono il surriscaldamento del motore e l’inevitabile rottura. Allo stesso modo, un uomo competitivo può veramente morire con il cuore schiantato. Il suo amore non ha trovato la via per uscire dall’Io e accostarsi al Tu.

Se la ricerca del Tu è impedita, diventa impossibile anche trovare il proprio Sé, perché soltanto nell’immagine-guida di un Tu l’Io può come in uno specchio, percepire, rendere viva e realizzare la propria capacità di sviluppo emotivo. Chi non trova l’accesso al Tu non trova neppure l’accesso alla propria essenza, cioè al proprio Sé. Senza eros ci sentiamo senza vita. Persino l’eremita può dispiegare la propria anima solo se, nella meditazione o nella preghiera, si richiama al mondo, cioè alla “redenzione di tutti gli esseri viventi”, come ebbe a dire Buddha.

L’uomo competitivo soffre di un sovraccarico di energia che dovrebbe essere destinata alla scoperta del Tu e del sé. Nel matrimonio l’uomo competitivo sembra essere il più forte; è lui che decide come organizzare la vita pratica. Questa forza è tuttavia soltanto presunta, perché egli è dipendente dalla cura materna della moglie e, soprattutto, perché vive la famiglia con la stessa coazione al rendimento che ha sul suo posto di lavoro. Per questo motivo la sua energia si trasformerà un giorno, inevitabilmente in impotenza.

L’uomo competitivo ha soltanto una cognizione oscura e inquietante di tutte queste interconnessioni. Nel tentativo di placare l’ansia indotta da una paura esagerata delle malattie e della morte, diventa sempre più tirannico in famiglia e nel lavoro; di conseguenza, aumentano il suo isolamento e la pressione che un giorno lo spezzerà.

Tratto dal libro: Il no in amorePeter Schellenbaum – Red edizioni