Kamut, selenio ecc.: i falsi miti dell’alimentazione moderna

Che cosa sappiamo dei cibi che mettiamo dentro il carrello quando facciamo la spesa? E’ meglio mangiare le uova di tipo 0 o quelle di tipo 3? E’ vero che chi mangia le patate al selenio è più intelligente? Rischiamo o meno a mangiare spesso tonno in scatola?

A tutte queste domande (e a molte altre) risponde un libro (“Le bugie nel carrello”), pubblicato da Chiarelettere e del quale è autore Dario Bressanini.

Dottor Bressanini, il primo capitolo del suo libro è dedicato al Kamut: perché non le piace questo grano così di moda?

«Non è vero che non mi piace, dico che non c’è giustificazione rispetto al prezzo al quale viene venduto sul mercato. Intanto cerchiamo di sfatare una leggenda: non si tratta del grano dei faraoni. E’ un grano duro coltivato nel Montana (negli Usa) da una azienda che ha registrato il nome commerciale. Kamut, dunque, non è un tipo di grano ma un marchio commerciale registrato».

Questo vuol dire che questo grano si può coltivare solo nel Montana?

«No, questo grano si coltiva anche in altre zone del mondo l’importante è che non si commercializzi col marchio Kamut. Chi vuole Kamut, insomma, lo deve comperare dalla azienda del Montana, Kamut».

Beh, in fondo si può pagare un po’ di più un grano che può entrare anche nella alimentazione dei celiaci…

«Ma anche questo non è vero. Il Kamut è un grano duro che, come altri tipi di grano, non può entrare nella alimentazione di pazienti celiaci. In buona sostanza; chi vuole mangiare prodotti a base di grano Kamut, lo faccia pure ma sappia che non sta mangiando il grano dei faraoni né un grano che non crea problemi ai celiaci. E’ un grano come altri ma che costa di più per via di una abile operazione di marketing. Recentemente sul mercato sono stati introdotti altri tipi di grano commercializzati, con marchio registrato, e con nomi suggestivi. Ma, spesso, si tratta di operazioni di marketing. E pensare che questi prodotti a base di Kamut li ho visti anche in qualche negozio che propone prodotti a kilometro zero, come se la distanza dal Montana non contasse».

Quella del Kamut non è l’unica leggenda che circola nel campo degli alimenti, come succede al pomodoro Pachino. Come nasce questa ultima leggenda?

«Pachino è una località della provincia di Siracusa dove sino agli anni Ottanta-Novanta si producevano pomodori, buoni sì, ma pomodori senza blasoni particolari. Poi questa località è diventata famosa per un tipo di pomodoro di forma piccola, quasi delle grosse ciliegie, inventate dagli israeliani. E da allora d’estate e d’inverno tutta l’Italia è stata invasa dai pomodorini Pachino, proposti come se si trattasse di produzioni di antica tradizione e che dal 2003 gode della tutela Igp (indicazione geografica tipica)»

E’ vero, comunque, che i pomodorini Pachino sono stati accolti con successo dai consumatori. Perchè?

«Perchè sono buoni. Questo spiega perchè ormai questi pomdorini siano entrati nella case degli italiani. Determinante per il successo di questi pomodori e stata l’introduzione, da parte delle aziende sementiere, di due geni, che permettono di mantenere inalterate le caratteristiche del prodotto per un periodo di due o tre settimane dopo la raccolta. E inoltre la coltivazione non richiede particolari trattamenti antiparassitari”.

Tutto bene, ma la tradizione del Pachino dov’è?

«Non c’è. A Pachino i pomodori si coltivano dal 1925, ma si tratta di pomdori diversi da quelli conosciuti come Pachino. Anzi quando è stato proposto di coltivare la varietà a ciliegino, molti coltivatori erano contrari e hanno opposto una resistenza. Poi, però, hanno accettato. Ma di qui a parlare di tradizione del Pachino ce ne passa».

Ormai per alcuni prodotti l’associazione alla località di provenienza sembra una garanzia di qualità. Ma come fa il consumatore a capire esattamente che cosa gli arriva nel piatto?

«Non è semplice. Intanto bisogna leggere bene le etichette. Se vedo che una marmellata dichiara in etichetta di non avere zuccheri aggiunti e vedo che gli zuccheri totali sono il 50% del prodotto, beh c’è qualcosa che non torna. Se leggo l’etichetta scopro, poi, che al prodotto hanno aggiunto succo d’uva concentrato e altro. Morale: leggere sempre molto bene l’etichetta dei prodotti».

E che cosa mi dice del “Bifidus actiregularis“?

«Anche questo è un marchio registrato che cambia nome a seconda del paese in cui venduto lo yoghurt. Il nome richiama in qualche modo la funzione salutistica del prodotto».

Parliamo di uova. E’ vero che quelle delle galline a terra sono più sane?

«Come sapete le uova vengono classificate con dei codici (zero per le galline a terra, 3 per quelle in gabbia etc.). Dal punto di vista nutrizionale non ci sono differenze tra i diversi tipi di uova. Quelle “a terra” sono più sane? Dipende dall’ambiente in cui razzolano le galline. Se sono in un’ambiente sano sono sane. Se sono a poca distanza da un’area industriale fortemente inquinata non si può sperare nei miracoli e quindi saranno fortemente inquinate. Recentemente in Belgio sono state trovate delle uova di galline a terra che avevano un alto contenuto di diossina, tre volte superiore al massimo consentito, poichè l’ambiente in cui si trovava l’aia era fortemente inquinato».

Nel suo libro si occupa anche di vino biodinamico: è più buono degli altri?

«Il fatto che un vino sia biodinamico non significa che sia automaticamente più buono. Se devo essere sincero, però, non mi convince molto questa filosofia esoterica applicata al vino. Per intenderci, non vedo perchè un vino nato da uve provenienti da un vigneto fertilizzato con un corno di bue sotterrato in condizioni particolari, possa essere migliore di un altro. Gli amici esperti mi dicono che i vini biodinamici di Nicolas Joly, Romanèe Conti e altri produttori sono straordinari. Non ho difficoltà a crederlo, ma non c’e alcuna prova che la loro qualità sia dovuta all’uso del cornoletame, del cornosilice, o dell’achillea fermentata nella vescica del cervo in contatto astrale con le forze cosmiche dell’universo. Credo sia dovuto soprattutto alle pratiche in vigna di questi produttori, al loro grande coinvolgimento e all’estrema attenzione al prodotto, non a motivazioni esoteriche».

Pasquale Porcu

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