La chat è uno specchio

Quando si parla di comunità virtuali si fa riferimento, in genere, alle occasioni di comunicazione sul Web che danno origine a una qualche forma di socialità. Possiamo parlare di forum, di chat, di liste di discussione e avremo colto nel segno.

Il più autorevole studioso di questa forma di comunità le descrive così: “Nel cyberspazio chiacchieriamo e litighiamo, ci impegniamo in rapporti intellettuali, facciamo commerci, ci scambiamo informazioni, ci sosteniamo emotivamente, facciamo progetti, ci scambiamo idee, pettegolezzi, odii e amori, troviamo amici e li perdiamo, facciamo giochi di tutti i tipi, creiamo un pochino di grande arte e un sacco di chiacchiere idiote. Facciamo insomma tutto ciò che si fa quando ci si incontra, solo che lo facciamo usando parole su un monitor, lasciandoci alle spalle i nostri corpi.” (Rheingold 1992).

L’incontro con “l’altro da sè” è il cuore pulsante delle comunità e, alla fine, poco importa se Internet ci obbliga a fare a meno del nostro corpo. Lo spazio di Internet apre opportunità che hanno questo limite “congenito”, ma quando si spegne il monitor le relazioni sociali continuano esattamente come prima di aver acceso il PC.

Quello che delle comunità virtuali si conosce ancora poco sono le motivazioni profonde, le radici antropologiche e sociali della molla che ci spinge all’incontro con l’altro, pur sapendo che i corpi delle persone sono fuori da questa esperienza.
Pensiamo alle chiacchierate notturne in chat e ai forum di discussione: che cosa stiamo cercando nella relazione con l’altro? Che cosa può darmi lo scambio di parole con uno sconosciuto, che non avrò da una persona in carne ed ossa?

George Herbert Mead, filosofo e psicologo, ha individuato un’interessante chiave di interpretazione. Le sue scoperte hanno preso forma dall’osservazione dei bambini coinvolti in attività di gioco. Sapete cosa succede quando i bambini scelgono insieme un nuovo gioco? La prima cosa che decidono è il ruolo di ciascuno all’interno del gruppo, ovvero quello che Mead chiama la definizione del Sé. Il nostro Sé – l’identità /ruolo che descrive quello che siamo – non è con noi fin dalla nascita, ma si modella durante gli incontri sociali, che sperimentiamo fin da bambini.

Secondo Mead, quello che io conosco di me stesso – l’Io come soggetto attivo e il Me come oggetto delle denominazioni degli altri – è il risultato delle definizioni che ho ricevuto nell’interazione comunicativa di ogni singolo giorno della mia vita di relazione. Il Sé è un’entità fluida, che si modifica di continuo nei giochi di ruolo della nostra vita. La comunità, con il suo scambio di parole, di credenze, di interpretazioni dell’esperienza, è lo spazio dove il Sé si presenta, di volta in volta, con le sembianze di una “statua di cera” sempre nuova e diversa.
Le conclusioni di Mead lasciano terreno fertile per almeno un paio di domande:

1. Perché abbiamo un irrinunciabile bisogno di incontrare gli altri e di chiedere loro chi siamo?
2. Chi meglio di noi può sapere qual è la nostra identità?

L’abitudine a parlare con noi stessi, a farci una gran quantità di domande a proposito della nostra identità, delle nostre possibilità e delle nostre scelte, è uno dei “vizi” più coltivati dagli uomini di tutti i tempi. Quello che spesso capita è che, non soddisfatti dalle risposte coniate in autonomia, ripetiamo le stesse identiche domande anche a chi ci sta vicino, a chi ci conosce e che, forse, può arricchire la nostra ricerca. Cerchiamo un luogo accogliente, un cantuccio confortevole, dove ci fanno compagnia le parole rassicuranti di un’altra apertura cosciente.

La coscienza, secondo Husserl, è una prospettiva che si apre sul mondo ed ha sempre un punto di fuga – chiamato Nullpunkt (punto zero) – che chiude ogni possibilità di conoscerne l’origine. Per questa ragione, sappiamo di essere sempre troppo lontani dalla spiegazione del nostro essere nel mondo e cerchiamo nell’altro uno specchio che riflette il modo in cui si manifesta la nostra identità. Insomma, non conosciamo le nostre origini, sappiamo però che siamo qui, in un punto del mondo, ad un certo preciso momento ed il nostro sguardo sulle cose è essenzialmente costituito da questi termini di riferimento di base. Detto questo, scoprire chi siamo, ovvero sapere quale rete di significati ci fa esistere come soggetti unici, è un’operazione che ci mette in gioco in una comunità, dove le voci interpellate hanno sempre qualche tipo di risposta alla nostra domanda.

In definitiva, cosa cerchiamo nella comunità virtuale? Una risposta può essere: come viaggiatori, cerchiamo in rete quello che, senza sosta, inseguiamo anche nelle relazioni quotidiane: uno specchio per vedere come siamo fatti.

Di Linda Scotti

Fonte: http://www.comunicobene.com

Bibliografia