Benevolenza: Atteggiamento mentale

La benevolenza, o volere bene, è qualcosa che siamo abituati ad associare a un comportamento, a una serie di comportamenti e di manifestazioni nei confronti degli altri. In realtà, la benevolenza è, innanzi tutto, un atteggiamento mentale.

Buddha stesso e tutto l’insegnamento buddhista presentano la benevolenza come uno dei quattro “incommensurabili stati mentali”, assieme alla compassione, alla gioia empatica (gioia per la gioia altrui) e all’equanimità (quest’ultima può essere tradotta con “lasciare andare”, “non aggrapparsi”). Tutti gli esseri umani desidererebbero che fossero presenti, quantomeno nei loro confronti, questi quattro stati mentali. Chi è più smaliziato, un po’ più consapevole, sa che la cosa più seria, più onesta che possiamo fare con noi stessi è sviluppare queste qualità dentro di noi, prima ancora di attenderci che siano presenti all’esterno.

La benevolenza, il volere bene, va anzitutto diretto nei confronti di noi stessi. Buddha e molti altri maestri sia occidentali che orientali e in particolare, in tempi recenti, Osho, in modo assolutamente perentorio hanno sostenuto che se non si passa attraverso il volersi bene, il voler bene agli altri è una finzione, una copertura, una compensazione. In fondo è un imbroglio che facciamo a noi stessi e che è destinato in breve tempo a mostrare tutta la sua ridicola natura.

Se non vogliamo bene a noi stessi, quando fingiamo di voler bene agli altri o anche quando ci crediamo seriamente, semplicemente perché il nostro livello di consapevolezza non è molto elevato o è obnubilato, in realtà ci odiamo. E prima o poi succede che facciamo dei guai a noi stessi, ma anche agli altri.

Partiamo dunque da noi stessi, dal voler bene a noi stessi, anche se è una cosa difficile perché siamo più addestrati a volerci male, a rimanere nella sofferenza, rotolandoci e crogiolandoci in qualche modo nel fatto che siamo pieni di problemi, piuttosto che accettare di perdere tutti i vantaggi secondari che possono derivare dalla manifestazione della nostra sofferenza.

La sofferenza, teniamone conto, ha sempre dei vantaggi secondari e, soprattutto, nella sofferenza noi ci sentiamo deresponsabilizzati, perché abbiamo la possibilità di continuare a lamentarci.

Credo che gli esseri umani imparino molto precocemente a lamentarsi. Il suono dell’essere umano è il lamento, non è il grido di gioia, non è la risata, non è nemmeno l’urlo della rabbia; il lamento è la nostra condizione sonora di base. È il mantra che ha costruito le nostre cellule.

Lasciare il lamento è possibile, ma si tratta di essere prima benevolenti nei nostri stessi confronti: e solo quando saremo benevolenti nei nostri stessi confronti, potremo permetterci di essere benevolenti nei confronti degli altri.

Pensate a questo augurio che noi ci possiamo fare: “Possa io essere libero da inimicizia; possa io essere libero da afflizioni; possa io essere libero dall’ansia; possa io essere in pace ed essere gioioso”.

Non si tratta di dire queste formule per ingraziarci i favori di qualche dio che esaudisca i nostri desideri, come nelle preghiere che abbiamo imparato da piccoli, a dottrina. Stiamo semplicemente orientando la nostra mente verso la libertà da queste afflizioni. È una forma di meditazione.

La meditazione fondamentalmente serve, almeno in un primo tempo, per addestrare la nostra mente. Il cavallo impazzito, l’elefante impazzito, la scimmia impazzita, per citare solo alcune delle suggestive metafore utilizzate dalle tradizioni tibetana e indù per rappresentare la mente umana, con la meditazione è possibile domarli. Riusciamo a domare la nostra mente e a dirigerla dove la parte di noi più sana intende indirizzare le attività, la forza, il coraggio.

Attraverso la meditazione e in modo particolare attraverso le meditazioni di consapevolezza possiamo coltivare in noi la benevolenza.

Un primo flash su come potrebbe essere un’attività meditativa che annaffi i semi della benevolenza consiste nel chiederci: “Cosa farei se fossi completamente fiorito nelle mie parti più positive? Come sarei?”.

Farci questa fantasia significa già essere benevolenti nei nostri confronti. Vuol dire accettare che in fondo, dentro di noi, ci sono delle cose belle che non sono ancora completamente fiorite. Significa dare alla nostra mente la possibilità di costruire un pensiero, un’immagine, delle sensazioni, forse dei suoni, a volte degli odori, rispetto a come saremmo se fossimo completamente fioriti nei nostri doni. Quando parlo di doni mi riferisco sia a qualcosa di molto psicologico, sia a qualche cosa che si manifesta anche molto materialmente: potrebbe essere il dono del saper ascoltare gli altri, come potrebbe essere il dono di saper costruire un muro. Qualcuno di noi ha il dono di saper godere della vita nel suo aspetto fisico; qualcuno è felice per il corpo che ha; è felice nel poter esprimere la propria sessualità; qualcuno è felice nel poter esprimere la propria creatività; qualcuno può essere ancor più felice esprimendo la propria umiltà, quando l’umiltà è autentica, nel momento in cui la si agisce.

Come saremmo, se questi doni fiorissero dentro di noi?

Teniamo questa immagine, dunque, e poniamoci un’ulteriore domanda: “Cosa sto facendo per nascondere i miei doni? E in modo specifico, cosa sto facendo per occultare il dono, che c’è dentro di me, della benevolenza e dell’amore?”.

Ci accorgeremo così che stiamo mettendo in atto dei meccanismi che non ci consentono di esprimere la nostra vera natura di benevolenza e che hanno a che fare con la paura, con l’odio, con l’inimicizia, con l’orgoglio, con il disprezzo, con l’invidia, con il sospetto.

Quando diciamo: “Possa io essere libero dall’inimicizia”, oppure “possa io essere libero dall’odio” non intendiamo libero dall’odio degli altri nei nostri confronti, ma dall’odio che noi proviamo nei confronti di altri, perché l’odio è una forma di sofferenza, la più radicale di tutte le forme di sofferenza. Se nei confronti di una certa persona sentiamo di provare un sentimento di inimicizia che può anche avere le caratteristiche dell’odio, domandiamoci cosa, in realtà, stiamo odiando di quella persona, poiché rispondere a questo interrogativo è la parte più importante della meditazione. Quasi sempre ciò che stiamo odiando è una semplificazione eccessiva; stiamo odiando qualche cosa che non esiste. Facciamo diventare una sola caratteristica di questa persona (espressa in un certo e ben preciso contesto, in una situazione molto particolare), tutta quella persona. Quindi in realtà operiamo una distorsione, deformiamo l’altra persona, facendola diventare un facile bersaglio del nostro odio.

Se fossimo benevolenti nei confronti di noi stessi, appena iniziamo a sentire che dentro di noi sorge l’odio, lo guarderemmo, certamente non lo negheremmo mai, ma sapremmo anche che questa è la nostra malattia e come tale va curata nel modo giusto. E possiamo sentire che è una malattia solo se capiamo profondamente il male che ci sta facendo provare dell’odio, provare dell’inimicizia, provare dell’ostilità.

Cos’è che non funziona nella nostra mente e che fa sì che nutriamo sentimenti di odio e di ostilità nei confronti di qualcuno? Semplicemente non stiamo vedendo la complessità e le mille sfaccettature di una persona, ma una parte piccola di questa persona, che in una certa occasione ha ferito una parte di noi.

Questa cosa diventa talmente grande e talmente importante, per cui ci perdiamo la storia di questa persona, ci perdiamo la sua bellezza, ci perdiamo la possibilità di vedere che questa persona (a fianco di comportamenti che possiamo anche francamente riconoscere come comportamenti cattivi) ha anche manifestato delle qualità buone. Ha manifestato magari anche nei nostri stessi confronti degli atteggiamenti buoni.

Ma, sapete, una parola buona, perché noi ce la possiamo ricordare, ci va ripetuta ogni giorno. Mentre una parola cattiva basta che ci venga detta una sola volta e ce la ricordiamo per tutta la vita.

Se vogliamo cambiare un po’ il modo di funzionare della nostra mente, allora le pratiche di consapevolezza che favoriscano il fiorire dentro di noi della benevolenza, sono fondamentali.

Un ultimo passaggio della traccia di meditazione fin qui abbozzata potrebbe essere il portare l’attenzione su qualcuno, nei confronti del quale sentiamo di provare ostilità, e augurargli: “Possa tu essere libero da inimicizia, possa tu essere libero da afflizione, dall’ansia, possa tu essere in pace ed essere felice” e mentre pensiamo questo, immaginiamo come sarebbe questa persona se fosse così. Come sarebbe? Sarebbe magnifica! Avrebbe tutti i suoi doni alla luce del sole, sarebbe anche lei benevolente nei nostri confronti. Non la percepiremmo più come nemica. Come possiamo percepire come nemiche le persone delle quali scopriamo i profondi doni?

L’amore, la benevolenza, la gioia, la compassione, e l’equanimità sono tutti semi buddhici, connaturati al Buddha interiore presente in ognuno di noi. Sono qualità allo stato potenziale che tutti abbiamo. Si tratta solo di annaffiare questi semi, di far crescere il fiore.

E ancora, senza benevolenza non ci può essere gioia, senza gioia non ci può essere celebrazione. Il punto di partenza per la benevolenza è la scoperta grandiosa che non ci sono dei buoni motivi per non essere benevolenti.

di Miten Veniero Galvagni

Fonte: http://www.reggio24ore.com

Bibliografia