Se la morte di un essere umano fosse qualcosa di assolutamente sconvolgente, le sue conseguenze sarebbero irreparabili. Invece la vita continua. Questa stessa espressione generica “la vita continua” la intendiamo in riferimento a quella terrestre; in realtà dovremmo intenderla in riferimento alla vita in generale, quella, per intendersi, dell’universo, di cui la terra è parte e di cui, in fondo, gli esseri umani sanno ancora molto poco.
“La vita continua” è un’espressione metafisica, che va al di là dell’apparenza. La vita continua “per tutti” – così andrebbe interpretata. Cioè la vita è un concetto che include la morte e che caratterizza l’intero universo. La morte, dunque, è solo trasformazione.
La morte fa parte della vita, nel senso che ne è un aspetto fondamentale, imprescindibile. La morte dà addirittura significato alla vita, poiché una vita senza morte non sarebbe umana o terrestre, non apparterrebbe neppure all’universo.
Nell’universo infatti tutto ha un inizio e una fine. Combattere la morte o ritardarla artificialmente significa andare contro la vita, e quindi vivere nell’illusione, al di fuori della realtà. Voler vivere a tutti i costi è non meno innaturale che voler morire a tutti i costi. Voler vivere da eroi è non meno alienante che voler morire da martiri.
La vita e la morte sono aspetti naturali che andrebbero vissuti in maniera naturale, secondo le leggi della natura. E nella natura la morte, in realtà, non esiste se non come forma di passaggio. La morte è l’anticamera di una nuova vita. Tutto è trasformazione. Vita e morte fanno parte di un immane processo di trasformazione, di cui noi non vediamo né l’inizio né la fine.
La consapevolezza di questo dovrebbe portarci a relativizzare le questioni personali, i limiti soggettivi. Ognuno di noi fa parte di una specie particolare e al tempo stesso universale: il genere umano.
Ciò che conta in realtà non è né la vita né la morte, ma la dignità dell’essere umano, l’essenza della sua umanità. Vita e morte coincidono quando è in gioco la difesa del valore del senso di umanità. Aver paura della morte, quando è in gioco questo valore, significa non saperlo vivere con coerenza, sino in fondo.
L’unica cosa di cui bisogna aver paura è proprio questa incapacità a essere naturali, a vivere con naturalezza la propria umanità.
Tra vita e morte, dal punto di vista fisico, non c’è alcuna differenza: la morte non è che la modalità del passaggio da una forma di vita a un’altra.
Essere attaccati a una forma di vita in modo da precludersi l’interesse per l’altra forma è segno di follia. Come d’altra parte il contrario. Disprezzare questa forma terrena di vita in nome di una forma che ancora non si può vivere, è segno d’immaturità.
Tutelare il diritto alla vita al punto da negare quello alla morte è indice di visione ideologica delle cose. La vita di per sé non è un valore, ma solo una condizione in cui il valore può essere vissuto. Non si può tutelare una forma a prescindere dal suo contenuto, altrimenti si rischia di fare della forma un contenuto fine a se stesso.
Se la vita, come forma, fosse un contenuto, la morte potrebbe anche essere considerata come un contenuto equivalente, anzi alternativo. Vivere o morire sarebbero la stessa cosa, poiché entrambe potrebbero pretendere un’assolutezza esclusiva.
Invece, se c’è una forma che non può avere alcun contenuto, questa è proprio la morte. La morte è una forma destinata a rimanere priva di contenuto, una condizione in cui il valore non può essere vissuto in alcun modo. L’unico valore che la morte possiede è quello che noi le attribuiamo in rapporto alla vita.
Una qualunque religione che predichi un paradiso nell’aldilà e che quindi ponga una netta demarcazione tra vita e morte, è inevitabilmente contraria all’idea di perenne trasformazione. In ultima istanza è una religione che odia la vita in quanto ama solo una possibilità di vita completamente diversa.
Religioni di questo genere finiscono nell’alienazione mentale o restano comunque una forma di filosofia rassegnata. Spesso, per evitare queste forme di alienazione, si finisce col credere che l’unica vita possibile sia quella – carica di contraddizioni antagonistiche – che si vive sulla terra e che la morte (da evitare se non da odiare con tutte le forze) costituisca la fine di tutto. L’alienazione del cattolicesimo si è trasformata, nel protestantesimo, in cinismo.
Tratto da: http://www.homolaicus.com
Bibliografia