Quando un amore finisce

disability-depression-and-chronic-pain-715839Ecco schematicamente alcuni rimedi suggeriti per chi vive l’esperienza della fine di un rapporto, specie per chi non ha scelto, ma ha subito la fine:

1. Farsene una ragione, acquistare consapevolezza. (Prendere di coscienza)

Si può provare rabbia, ribellione, protesta, si può urlare la propria disperazione, fino allo sfinimento…ma poi la vita continua.Col tempo subentra la calma: si passa pian piano dalla rassegnazione, al fatalismo, all’accettazione. Si può pensare alla rivincita a lunga scadenza, alla ripresa nel lungo periodo, vivere il tempo come alleato…

Bisogna accettare la condizione umana: ogni bene può essere perduto, anche l’amore di coppia. Ogni essere ha una parte (e a volte intollerabile, così sembra), di dolore; ma contro il muro di bronzo della realtà non serve battere i pugni ..non serve a nulla! La realtà non cambia. E’ giocoforza accettarla!

2. Fare il punto, mettersi in faccia alla situazione e incominciare a farsene carico, (Responsabilizzarsi)

Se non io, chi? Se non adesso, quando? Se non qui, dove? Constatazione mentale, orale, scritta… nero su bianco. Scrivere può servire a circoscrivere, ridimensionare, relativizzare. Prendere atto che: “Sembra di morire, ma non si muore “.

3. Evitare le pseudo riparazioni (non servono)

Per esempio: evadere col pensiero, rifugiarsi nella fantasia o nella fantasticheria, divertirsi e stordirsi nel piacere immediato, anestetizzarsi con gli psicofarmaci, l’alcol, le droghe (bere per dimenticare , affogare nell’alcol il proprio dolore)…

Invece bisogna guardare in faccia la realtà, chiamare le cose col proprio nome: tradimento, perdita, separazione, distacco, cambiamento, morte, lutto.

4. Cercare di fare buon uso della separazione! Trasformarlo in tempo di maturazione.

Farne un tempo di riflessione, occasione per ri-orientarsi con punti di riferimento meno precari e illusori (abbasso la stupida corsa programmata dell’esistenza: la moda, il profitto, i mille inutili orpelli del consumismo, senza i quali pare non si possa vivere!), e invece…pian piano ci si adatta! Si trova un nuovo equilibrio, pian piano si trova un altro significato.

Cfr. Dubchek : “Il corpo come si adatta! Carcere, freddo, buio, inutilità, fame, lavori forzati… L’uomo è l’animale più adattabile e l’istinto di vita supera ogni avversità, fino a farsi una gioia di tanti piccoli niente… Nell’animo, nella profondità dell’anima (come nella profondità del mare) si può percepire una calma indistruttibile; l’esserci, il vivere, nonostante ogni privazione esterna, o perdita interiore.”

Cfr. W. Frankl : “nel lager vivere è dolore, sopravvivere è trovare un significato a questo dolore!”. (Uno psicologo nel lager)

Cfr. Solzenitsyn : “Lev, amico mio, la felicità non dipende dalla quantità dei beni strappati alla vita, ma soltanto dal nostro rapporto verso di essi “

5. L’umorismo

L’umorismo ridimensiona, sdrammatizza, riduce il catastrofismo, ridà la giusta misura. Ci vuol saggezza, una certa filosofia, non prendersi troppo sul serio, sorridere di sé, (le vere cose che importano sono poche). E’ in questo sorriso fatto di ragionevolezza, di benevolenza e di relativizzazione, che sta la nostra fierezza di essere umani (“ragionevoli” appunto).

L’umorismo è il salvataggio del significato , e la capacità di riconquistare il senso della totalità, la visione dell’insieme dell’essere, la capacità di immaginazione dell’insieme (al di là della reazione catastrofica del “Tutto è perduto”).

Resta il compito di ritrovare un significato qui, adesso, nella nuova situazione; tra il tutto e il niente ritrovare il possibile… Se si drammatizza… è perché – in balia dell’angoscia della perdita – i piedi affondano nelle sabbie mobili dell’insignificante, del “perduto per sempre”…

Ci sono persone incapaci di umorismo (=incapaci di ridimensionamento con la visione d’insieme delle cose ): di ogni piccolezza fanno un dramma, e della loro esistenza fanno il dramma dei drammi! (egocentrismo megalomanico-narcisista )

grief210s-w0001_55Eppure, prima o poi, si dovranno fare i conti con le tragedie dell’essere, con la “malattia mortale” che è la vita e col destino di “condannati a morte” che è di tutti.

Se uno si distanzia arriva al senso della misura (delle vere misure). Se uno sorride, scherza con le cose che accadono, l’umorismo lo riporta al realismo, alla felicità possibile (che è l’unica raggiungibile).

Bisogna saper perdere, incassare i colpi delle avversità, reggere nella buona e nella cattiva sorte. La fortuna non dipende da noi. Non dipende da noi il vento: ma tenere ben alta la vela della nostra barca: questo dipende da noi!

(Solo il “giocatore” pretende la benevolenza, a tutti i costi, della dea dagli occhi bendati: la fortuna deve rivolgersi a me. Non può non rivolgersi a me, provo un’altra volta! E così complessivamente… fino ad autodistruggersi). Gran pessimi giocatori quelli che da avversari diventano nemici!

In realtà a noi tocca solo tenere ben tesa la vela della nostra barca, in modo che, quando il vento soffia, la nostra barca vada avanti. Ma il vento non dipende da noi.

6. L’arte, la creatività

Non tutti possono giungere alle tecniche terapeutiche più raffinate, ma si può puntare a raggiungere l’arte della separazione, l’arte del commiato; fare di un inciampo un gradino per salire, migliorarsi, maturare.

L’arte unisce al lavoro dell’immagine, il lavoro della materia. L’immagine si impone per il suo essere presente, lo splendore della forma s’impone, affascina. L’emozione estetica filtra il “bello”, nell’anima, qui adesso (fino all’estasi).

Il lavoro creativo trasforma la materia, produce un grande raccolto! Ecco alcuni frutti:

* armonizzazione

* pacificazione

* unificazione

* riconciliazione dell’io e del mondo.

E’ la gioia il frutto finale di questa equazione creativa (non il piacere): essa annuncia che la vita è riuscita, ha guadagnato terreno, ha riportato vittoria (sulla morte, sul niente…). E’ la gioia di aver fatto nascere qualcosa, chiamato in vita, fatto esistere quello che prima – senza di noi – non c’era.

Essere creativi, esprimere biofilia, far esistere qualcosa che non c’era, dà una gioia (e si sente) che è una gioia divina! La separazione iniziale sul piano del piacere (perduto), ma la gioia creatrice gli va oltre, estrae dal dolore della perdita un’opera nuova, la separazione è nell’ordine del tempo (caduco) la gioia creatrice è dell’ordine dell’eternità.

Fare di un sasso in cui si inciampa un gradino per salire; dell’ostacolo un trampolino di lancio, per un salto qualitativo di vita, irragiungibile senza quella sofferenza. Ecco i passaggi possibili:

1. Morte – risurrezione (se il grano non muore non porta frutto) 2. Dolore parziale – gioia più grande, universale 3. Tradimento – ritrovamento superiore 4. Sconfitta (parziale) – vittoria (globale)

7. L’azione, la tecnica, il fare…

Essa ha – come l’arte – il potere terapeutico di decentrare da sé, distogliere dal ripiegamento sterile, uscire da sé, volgersi verso l’oggettività, la realtà, il mondo.

Lo strumento tecnico (un apparecchio, uno scalpello, un computer…) è un prodigioso catalizzatore di energie: lo strumento mi obbedisce e mi resiste, concentra l’attenzione, devo imparare, far prove, ricominciare, dominare la mia impazienza! Mettendo ordine nel mondo degli oggetti, metto ordine in me stesso (ristabilizzo una gerarchia di priorità, ridefinisco una scala di valori).

Alla fine vinco, porto a compimento un compito. L’indefinito (e l’infinito) non mi danno respiro, il finito mi lascia il tempo per il riposo, per il rilassamento, per il sonno…

L’amore dell’oggetto può divenire il sostituto di un altro amore. Un buon rimedio contro la separazione non è la sostituzione, il riempimento con qualcosa d’altro? La compensazione più valida dell’oggetto perduto? Disinvestire e reinvestire di nuovo! Quale diversivo la molteplicità d’oggetti di consumo, i piccoli piaceri, le novità del mercato…

Bisogna potere agire, fare, “convertire un problema in azione”.

Medici, psicologi, droghe… possono aiutare, vi passeranno di mano in mano le difficoltà, e si divideranno il compito di farvi vivere, di rimediare allo strappo della vostra vita.

La guarigione ottenuta con una rimessa in sesto del vostro corpo e della vostra psiche è un’opera di solidarietà.

8. L’ascesi, la comunità, l’altruismo

L’azione è cammino della ricerca di sé verso il dono di sé; ma anche cammino dal “sé perduto” verso il “sé ritrovato” attraverso la mediazione del dono di sé.

Superati i vari “oggetti sostitutivi transazionali” (=di passaggio), si può arrivare all’oggetto vero: la comunità, la società, gli altri. L’altruismo come oblatività, donazione gratuita, per la gioia di sentirsi utili a qualcuno (dall’Eros all’Agape).

Il “Separato” si è finalmente de-centrato da sé, per ri-centrarsi sugli altri (=si è ritrovato perdendosi, ha guadagnato avendo avuto il coraggio di perdere).

Votarsi agli altri, rendersi utili a una causa, è da sempre un rimedio contro le grandi separazioni, contro i lutti irreparabili.

Ristabilire la comunicazione e, di questa, soprattutto l’ascolto. Un orecchio che ascolta più che una bocca che parli. Un “silenzio attento”, che accoglie, fa spazio dentro di sé all’altro…

La parola crea spesso malintesi, banalizza, alza barriere… il silenzio attento dell’ascolto, crea legami, lancia un ponte, fonda una relazione (=si esiste solo in una relazione io-tu, si dà realtà di esistenza solo nel rapporto, la sensazione vera di esserci si ha solo nella relazione, nel dialogo io-tu).

Lo stoico dice: resta indifferente a quello che non dipende da te. “Se qualcosa si separa da te, tu sepàrati da essa” (con l’indifferenza). Cfr. Buddha . I legami ti strazieranno con separazioni crudeli: separati dunque da tutto e più niente ti procurerà separazione!

E’ questa l’ascesi? Il distacco è il prototipo di ogni ascesi: “Tutto è vanità e fiato sprecato” (Eccl. 1,17).

Ascesi per donarsi, non per chiudersi in sé! Per aprirsi a tutti gli uomini. Staccarsi, per donarsi agli altri.

A cura del Dott. Cesare De Monti

Fonte: http://www.benessere.com