Emozioni e Socialità

communicatePotrebbe sembrare che le esperienze emotive siano riferite ad eventi che riguardano ciascun individuo singolarmente e si esauriscono in esso, eccezion fatta naturalmente per i comportamenti che possono derivare da un’emozione e che hanno quasi sempre una ricaduta sull’ambiente circostante.

Questa prospettiva individualistica non è del tutto estranea al nostro sentire perché capita infatti di avere la sensazione che l’emozione provata sia un qualcosa di molto speciale ed intimo che, per la sua rilevanza personale, va protetto dalle ingerenze del mondo esterno.

Tuttavia le reazioni emotive non sono fatti privati o strettamente personalistici. Anzi, il ruolo delle altre persone e, in genere, del contesto socio-culturale in cui le queste esperienze si verificano è assai rilevante, anche se di ciò siamo solo parzialmente consapevoli, proprio perché è importante la porzione cosiddetta “inconscia”.

Queste reazioni sono da considerare fenomeni sociali per due ordini di ragioni:

a) nella maggior parte delle occasioni in cui si provano emozioni, “gli altri” sono presenti, fisicamente o come rappresentazioni mentali e l’emozione vissuta, rievocata o anticipata che sia, rappresenta momenti essenziali delle nostre interazioni sociali; essa infatti condensa informazioni sia sul soggetto sia sull’interlocutore del rapporto sociale emotigeno e ogni emozione ha un suo significato che dipende anche, per esempio, dalla persona che mi ha fatto arrabbiare, che amo, che odio, rispetto alla quale mi sono sentito in imbarazzo oppure ho provato vergogna;

b) le norme culturali dell’ambiente sociale in cui si vive, sicuramente influiscono sulle manifestazioni delle emozioni (display rules); in più, dati recenti emersi dai raffronti compiuti su culture molto diverse tra loro (occidentale vs giapponese, cinese, eschimese, polinesiana) suggeriscono la possibilità che la cultura, modificando gli stili di vita, la gerarchia dei valori personali e sociali, ecc. possa produrre modificazioni sostanziali sulla qualità delle emozioni, sulla loro frequenza ed intensità, sulle occasioni capaci di stimolarle, ecc.

Alcuni autori limitano al massimo o negano del tutto il valore delle determinanti biologiche delle emozioni ed enfatizzano il ruolo dei fattori culturali e linguistici; altri invece, sono meno impegnati sul piano teorico e raggruppano esperimenti ed indagini transculturali che raccolgono dati sulla specificità culturale e/o sull’universalità dei quadri di risposte (reazioni fisiologiche, valutazioni cognitive, tendenze comportamentali, ecc.) distintivi di ciascuna emozione. In generale, i meccanismi di controllo sono tanto più forti quanto più le emozioni sono intense.

La gioia è l’emozione meno soggetta a controllo, mentre le tre negative (tristezza, paura e rabbia) sono tutte ugualmente controllate. Inglesi e francesi sono, complessivamente, i più controllati; i tedeschi controllano soprattutto la gioia e la tristezza, gli italiani la tristezza e la rabbia. Le donne non sono, come vorrebbe lo stereotipo, più incontrollate nelle manifestazioni emotive, tranne che per la paura che è manifestata più liberamente.

Babad e Wallbott (1986) hanno voluto esaminare questi dati con l’intento di verificare se sono confermati gli stereotipi nazionali secondo cui svizzeri e tedeschi sarebbero gente fredda e riservata che lavora duro, pensa solo a realizzarsi, dedica poca attenzione ai rapporti umani e sociali; nel sud dell’Europa, invece, la gente avrebbe forte temperamento, poche inibizioni, molte capacità espressive, tenderebbe a lavorare meno ed a badare di più ai rapporti familiari e sociali. Alcuni di questi elementi trovano riscontro nei dati, ma nel complesso le varie nazionalità riservano anche sorprese.

Gli italiani confermano di essere più chiacchieroni e meno controllati in tutte le loro reazioni ma, diversamente da quanto previsto, nominano il raggiungimento degli obiettivi, come antecedente delle emozioni, molto più degli svizzeri e dei tedeschi per i quali invece sembrano molto più importanti le relazioni interpersonali.

Gli inglesi e gli svizzeri presentano pure un alto numero di verbalizzazioni ma i primi mostrano anche un alto numero di meccanismi di controllo di tutte le reazioni. Ancora, gli italiani, gli spagnoli e gli inglesi sono quelli che presentano le emozioni più intense mentre gli israeliani sono quelli meno reattivi. Il risultato più saliente della ricerca è proprio la sostanziale omogeneità dei riscontri attraverso le otto culture.

I punti in comune sono molti di più delle differenze, per cui gli autori ritengono di poter affermare che gli antecedenti ed i quadri di risposte per queste le quattro emozioni ricordate hanno un carattere di universalità. In altre indagini trans-culturali sono state messe a confronto due culture, quella americana e giapponese, che sono effettivamente molto diverse per costumi e tradizioni. Le maggiori differenze vengono come previsto dai giapponesi, anche se non mancano i punti in comune con le culture occidentali.

Per la gioia, si osserva che il piacere fisico e le nuove nascite in famiglia sono meno rilevanti per i giapponesi i quali, inaspettatamente, danno anche poco peso al conseguimento di obiettivi personali. Per la tristezza vi sono differenze significative per quasi tutte le categorie come notizie, relazioni sociali, separazioni temporanee e permanenti.

Notevole è l’indifferenza mostrata dai giapponesi per la morte, che è quattro volte più citata dagli occidentali come antecedente della tristezza; secondo gli autori questo non significa che i giapponesi non soffrano per la perdita di persone care ma piuttosto che la perdita è sentita come meno radicale: infatti secondo il credo religioso scintoista – buddista, le anime dei defunti non vanno a collocarsi in un misterioso aldilà, ma restano nelle case dei vivi, rispettate e venerate dai parenti con riti appropriati.

Per la paura, gli americani citano situazioni nuove, conseguimento di obiettivi, situazioni rischiose, traffico e soprattutto estranei, mentre per i giapponesi sia gli estranei sia le situazioni rischiose hanno pochissima incidenza; gli estranei sono invece un antecedente molto citato dai giapponesi per la rabbia, mentre gli occidentali citano molto per questa emozione le difficoltà di rapporto con persone note e le ingiustizie che, invece, sono poco sentite dagli orientali come motivo di rabbia.

Il luogo più comune in cui tutti i soggetti provano emozioni è dentro casa, in famiglia anche se ai giapponesi succede di provare raramente gioia e più spesso tristezza in famiglia. I giapponesi provano poca paura in famiglia e praticamente mai rabbia nelle situazioni extrafamiliari.

Gli americani risultano essere i più espressivi, sia per quanto riguarda i gesti che le espressioni facciali, mentre i giapponesi sono i meno espressivi, anche se per la gioia e la rabbia mostrano alcune modificazioni della voce.Le maggiori differenze si registrano per le reazioni fisiologiche e le sensazioni generiche di attivazione piacevole e spiacevole che sono pochissimo citate dai soggetti giapponesi.

Questo sembra da collegare con uno stile di risposta più riservato, conforme ai costumi giapponesi che scoraggiano ogni manifestazione evidente di emotività. I giapponesi si sforzano di non esprimere tutte e tre le emozioni negative, ed in particolare la rabbia.

1-1-8-0-0-0-0-0-0-0-0Da notare che anche gli americani sembrano controllare le espressioni verbali della rabbia con molta attenzione, mentre gli europei sono i soggetti che la esprimono più liberamente.

Resta il fatto che, in questa ricerca più che nella precedente, le differenze fra culture emergono, soprattutto fra occidentali ed orientali e riguardano sia gli antecedenti situazionali sia le reazioni fisiologiche ed espressive. Le cause di ciò non sono affatto chiare, anche se in certi casi sembra esserci una relazione tra la struttura dell’esperienza emotiva e le norme, i valori ed anche i fattori sociodemografici ed economici di un contesto culturale.

Infine, comunque, per quanto riguarda la disputa tra ipotesi biologica (universalità delle emozioni) e ipotesi costruttivista (le emozioni si formano dall’interazione con il sociale) non si è ancora arrivati ad una conclusione certa: le emozioni sono molto simili per tutti i soggetti dei vari paesi e hanno, quindi, un certo carattere di universalità; le differenze culturali, anche se deboli, esistono e non possono essere ignorate, per cui non è accettabile neanche l’ipotesi biologica nella sua forma più radicale.

I vantaggi che possono derivare dal confronto sociale basato sulle emozioni sono numerosi:

a) intanto soddisfano una prima necessità che è quella di precisare, chiarire e rielaborare a livello cognitivo le sensazioni fisiche che hanno accompagnato l’emozione;

b) in secondo luogo, il parlare ripetutamente con gli altri di un evento emotivo, aiuta a guardare con distacco a quello che è successo, migliorando la capacità di giudizio e contribuisce a riordinare le idee, schematizzare l’episodio, dando ordine temporale e causale all’evento. Condividere con gli altri le proprie emozioni è anche un modo per meglio fronteggiare la situazione interna ed esterna suscitata dall’evento emotivo.

Tutto ciò rafforza la nostra identità sociale perché consolida il rapporto interpersonale con coloro a cui ci rivolgiamo se essi mostrano di capire e di accettare come giusto e legittimo il nostro stato emotivo; in più, ci fa sentire parte di una comunità nel momento in cui scopriamo che le nostre reazioni ed espressioni emotive sono condivise e rispecchiano le norme sociali. Rimè e collaboratori hanno distinto due aspetti del fenomeno: la condivisione sociale e la ruminazione.

Per “condivisione sociale” si intende propriamente la rievocazione che si esprime con una narrazione ad altri, mentre la “ruminazione mentale” corrisponde alla rievocazione solo interiore che una persona fa ripensando volutamente alle proprie esperienze emotive.

Sociologi, antropologi e psicologi sociali sono particolarmente attenti alle nozioni di competenza emotiva: “dimostrazione della propria efficacia in una situazione sociale capace di suscitare emozioni”.

Questa complessa abilità richiede innanzi tutto che le persone abbiano consapevolezza del proprio stato emotivo e sappiano identificare correttamente e partecipare empaticamente alle emozioni di altri. È necessario anche aver presente che non c’è sempre corrispondenza tra stato emotivo interiore ed espressione manifesta dell’emozione, sia in se stessi sia negli altri.

Una buona competenza non può prescindere dalla conoscenza e condivisione delle regole di esibizione delle emozioni e dalla capacità di usare adeguatamente il “lessico emotivo” tipico del proprio ambiente. La competenza emotiva è dunque il risultato dell’interazione di fattori personali – come il sesso, il temperamento, l’intelligenza – e sociali, ossia i dettami delle teorie ingenue che circolano in ogni cultura e che fissano il valore delle emozioni, definiscono i loro caratteri stereotipaci e ne regolano l’andamento (durata, intensità, modalità espressive) nelle interazioni sociali.

Queste informazioni sono veicolate dal processo di socializzazione che inizia findalla nascita e comprende una vera e propria educazione alle emozioni, intervento questo che in certe culture sembra avere la marcata tendenza a “denaturalizzare” la qualità dell’esperienza emotiva individuale (White, 1993) a favore della sua culturalizzazione. Naturalmente anche se la società si adopera per impartire un’educazione emotiva, le reazione dei singoli non vengono completamente livellate e ognuno mantiene un certo grado di individualità nel modo di esperire le emozioni.

Fonte: www.slowmind.net